La borsa ostetrica è appartenuta a Maria Rovelli (1926-2021), ostetrica di Seregno diplomata nel 1952 presso la Clinica Mangiagalli di Milano. Nel 2011 il bene è stato donato dalla stessa Rovelli all’Ateneo di Milano-Bicocca e, attualmente, è conservato ed esposto presso il Dipartimento di medicina e chirurgia a Monza.

La valigetta, realizzata in pelle di colore marrone scuro, contiene una struttura in metallo estraibile composta da tre piatti uniti per mezzo di ganci. Su questa intelaiatura sono assicurati, tramite elastici, vari strumenti ostetrici, vasetti e fiale di medicinali. Questo corredo comprende i ferri e le sostanze di cui l’ostetrica si serviva durante le visite di controllo in gravidanza e in puerperio, così come nell’assistenza al parto.

Il contenuto della borsa può essere considerato a tutti gli effetti un reperto storico, testimone dei cambiamenti sociali e sanitari che hanno caratterizzato il Novecento. L’esame degli strumenti ostetrici permette infatti di ripercorrere e comprendere l’evoluzione della figura dell’ostetrica che, nell’arco di un quarto di secolo, diviene da levatrice di formazione empirica una moderna professionista sanitaria, operante prima in ambito domiciliare e in seguito prevalentemente in ospedale.

In tale percorso, uno snodo fondamentale riguarda il riconoscimento dell’autonomia professionale delle ostetriche, un concetto che si affermerà progressivamente e non senza contraddizioni, attraverso le norme e i regolamenti varati negli anni Trenta e Settanta. Il ruolo dell’ostetrica subì un primo cambiamento a cavallo fra le due guerre mondiali: al 1937 risale una prima riforma del percorso formativo che consegnò alle ostetriche una preparazione scientifica e procedurale solida e omogenea, ma anche una precisa delimitazione del loro ambito operativo rispetto a quello dei medici.

In un momento in cui il parto avveniva ancora per la maggior parte in casa, la difficoltà di mantenere adeguate condizioni igieniche e i rischi di infezioni portarono a un secondo cambiamento che mutò radicalmente l’operare delle ostetriche: il passaggio del parto dall’ambiente domestico a quello ospedaliero.

Questa transizione avrebbe protetto le donne da complicazioni come la febbre puerperale, un’infezione non di rado letale prima della diffusione della terapia antibiotica, ma avrebbe anche segnato l’inizio della medicalizzazione della nascita. Se da un lato questo processo implicò un crescente coinvolgimento del medico nella gestione del parto, le normative del 1940 e del 1975 autorizzarono le ostetriche a effettuare alcune procedure fino ad allora riservate ai medici, tra cui l’episiotomia.

Nel set della Rovelli, uno strumento suggestivo dal punto di vista storico è per l’appunto la stringa di punti metallici adoperata per la sutura perineale, la cui esecuzione da parte delle ostetriche era stata – come s’è detto – riammessa in forza di legge. La presenza di questo strumento all’interno della borsa dimostra come, nella pratica effettiva, le ostetriche condotte lavorassero spesso in autonomia, soprattutto in località isolate dove il medico non poteva arrivare in tempo. Nell’assistenza al parto, un’ostetrica doveva essere preparata a fronteggiare emergenze e complicazioni da sola, effettuando suture e altre procedure magari non ufficialmente permesse, ma indispensabili per salvare la vita della partoriente e del bambino. Questa pagina di storia della professione ostetrica è certamente ben documentata nella borsa della Rovelli, che si rivela pertanto un oggetto di notevole valore informativo.Nel 2022 la borsa ostetrica è stata inserita nel Catalogo generale dei Beni culturali e, nel 2023, è stata accolta come bene storico-scientifico nella mostra “Birth: nascere non basta”. Nel maggio 2024, il reperto ha subito un accurato intervento di restauro.